Georg Büchner
LA MORTE DI DANTON
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regia Simone Carella
diapositive Alessandro Figurelli
musiche Miles Davis (da Bitches Brew)
con Daniela D'Arpino, Maurizio Di Mattia
Daniele Magnante, Ornella Minnetti
Marco Oizere, Rossella Or, Natale Russo
Beat72 - 10 giugno 1975 - Roma
«Per me il teatro sperimentale deve occuparsi di questioni tecniche e stilistiche, tenendo conto che l'attenzione ai mezzi è dettata da uno strano-amore per il fine»
- Ma dov'è Danton? -
- Se qualcuno cercasse di me dite che io non sono qui
né in nessun luogo -
«L'immagine è il risultato di una progressiva selezione operata, durante lo svolgimento dell'azione, tra una serie di immagini di partenza complementari tra loro, noi cerchiamo di ottenere una visione continua ma continuamente frantumata e frammentaria come se gli attori, la luce, lo spazio, la musica di per sé costituiscano e sviluppino storie indipendenti tra loro, o meglio indeterminate, e che progressivamente queste possano accumularsi non per una costrizione d'uso ma per simpatia.»
Simone Carella sul programma di sala
[…] «CARELLA: …un testo romantico in cui si agitano le grandi passioni, la virtù rivoluzionaria di Robespierre contro l’estetismo cinico di Danton. Questo spettacolo ha avuto due versioni, la prima elaborata all’Attico, nella sala di via Beccaria, che però non è arrivata alla realizzazione, molto diversa da quella che è andata in scena al Beat72. Là c’era uno spazio sconfinato che qui si è dovuto ridurre; così dal salto un po’ traumatico di ambiente mi sono accorto di alcune possibilità, per esempio della luce: gli attori compivano delle azioni che dovevano essere concrete, in quanto determinate da una situazione concreta, in rapporto alogico tra loro, e anche nei confronti del testo, che era registrato e andava avanti insieme alla musica continua di due dischi di Miles Davis.
QUADRI: Quindi in playback, come Carmelo Bene oggi.
CARELLA: Sí. C’erano questi due dischi di Miles Davis e poi sull’altra pista mixate le voci di due attrici, Rossella Or e Ornella Minnetti, che leggevano brani del testo di Büchner, mentre gli attori compivano delle azioni all’interno della platea.»
[…] «Comunque mi interessava sottolineare una situazione di precarietà per gli attori, cioè ogni volta l’impossibilità per loro di potersi fidare della situazione in cui si trovavano, perché in realtà dovevano stare molto attenti a non battere la testa, per esempio, contro un tubo che sporgeva, piuttosto che alla propria interpretazione.»
[…] «Devo dire anche che era uno spettacolo piuttosto allucinante, nel senso che era un po’ allucinogeno, come scoprire una capacità diversa del tuo occhio, di vedere nel buio per esempio, spegnendo lentissimamente una serie di luci che tra l’altro erano anche fortemente colorate, con dei rossi, dei viola, dei verdi molto violenti: abbassando continuamente la soglia della luminosità del riflettore, vedevi continuamente delle cose diverse, come alzandola improvvisamente scoprivi poi invece la realtà della posizione dell’attore, ma senza mai capire, come non si capiva quando finiva la voce registrata e quando cominciava non so, un assolo di tromba.
QUADRI: Ma vi era una relazione tra queste azioni e il testo?
CARELLA: No, il testo uno lo doveva dimenticare e poi cercare di ricostruirlo con un altro sistema, cioè l’attore con il proprio corpo, con la propria voce, ma siccome la voce non c’era, essenzialmente con le proprie azioni».
Franco Quadri, L’Avanguardia teatrale in Italia (materiali 1960-1976), vol. 2, Einaudi, Torino 1977, pp. 561-562